mercoledì 12 dicembre 2012

Intervista a Lucio Matarazzo, terza parte

Mi pare però tu non fossi alla prima esperienza in questo ambito...

Sì, già altre volte avevo lavorato in un simile contesto, ma su effetti non musicali. Tra l’altro, nel ’95 avevo elaborato i "rumori" che furono poi usati da Riccardo Muti per il mozartiano “Die Zauberflöte”, nell'inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala di Milano, per la regia di R.De Simone.
Tornando a Brouwer, l’elaborazione del “Paesaggio” piacque moltissimo anche a Leo - sempre alla ricerca di sonorità nuove - che ne fu entusiasta, e quindi decidemmo di inserirla nel CD.
Dell’album uscito per la GHA è stata recentemente pubblicata una bellissima recensione ad opera del famoso chitarrista uruguayano Eduardo Fernandez, sulla rivista “Il Fronimo”. Mi ha fatto molto piacere che Eduardo abbia scritto che “Le esecuzioni del Guitart Quartet ci restituiscono (finalmente) queste opere di Brouwer come i capolavori che indiscutibilmente sono”.

Purtroppo poi nel CD non abbiamo potuto includere, per un problema di diritti, la registrazione del “Concierto Italico” fatta con Leo come direttore, registrazione che è stata pubblicata poi a Cuba in un CD monografico di musiche di Leo.




Al posto del concerto, visti i tempi ristrettissimi che avevamo, abbiamo inserito una mia versione per quartetto solo della “Gismontiana”.
Anche la storia di questa versione è abbastanza particolare e legata al caso.
Leo - allora direttore del Festival di Cordoba - ci aveva invitato a suonare la Gismontiana con l’orchestra, vista la rinuncia (ufficialmente per una tendinite) data da J.Williams per l’esecuzione del concerto per due chitarre e orchestra (“Book of signs”) che doveva suonare con C.Cotsiolis. Pochi giorni prima del concerto però, Williams ci ripensa e dà la sua disponibilità a suonare. Non volendo rinunciare al concerto, proposi a Leo di suonare la mia versione per quartetto solo, e lui ne fu entusiasta, sia per la proposta, che dopo averla ascoltata.
Rimase fuori da questa versione solo un brano, “Loro”, perché per come era scritto, con numerosi passi delle 4 chitarre all’unisono, non aveva molto senso arrangiarlo per quartetto solo.
Quella serata “cordobesa” (alle 11 di notte, con un caldo insopportabile e un pubblico di mille persone) è testimoniata da un video della “Cadenza”, che ho trovato per puro caso su YouTube, filmato da un ascoltatore che aveva un bel daffare nel cercare di non muoversi nel trambusto di pubblico che c’era....


Parlando di compositori innovativi, che ne pensi di John Zorn, dei suoi studi Book of Heads e della scena musicale downtown newyorkese così pronta ad appropriarsi e a ricodificare qualunque linguaggio musicale, dall’improvvisazione, al jazz, alla contemporanea, al noise, alla musica per cartoni animati?

Conosco gli studi di John Zorn attraverso le splendide esecuzioni - le ho sentite anche dal vivo - del nostro comune amico Marco Cappelli. E’ un ambito che mi attrae moltissimo e, devo confessare, più volte con Marco - durante i nostri incontri su Skype - ci siamo vicendevolmente rammaricati di non avere l’opportunità di collaborare insieme, cosa un po’ problematica, visto che lui abita a New York e spesso i suoi fugaci passaggi italiani sono coincisi con miei impegni all’estero. Credo anche io che la scena del downtown della Grande Mela sia la più reattiva a farsi permeare da tutti i linguaggi, non solo quelli da te citati, ma anche quelli, diversissimi, dell’est del mondo.
Credo che però sia difficile, se non impossibile, per chi vive lontano da questa realtà, farsi “trasportare” da quest’onda innovativa che sta dando esiti imprevedibili, ma anche talmente multiformi, da essere quasi proibitivi per chi ne “vive” al di fuori. Non è un caso che Marco abbia fatto una scelta ben precisa in tal senso decidendo di risiedere stabilmente a New York.

Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “...Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Tu suoni sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … ti riconosci in queste parole?

Anche se non sono un appassionato delle considerazioni in stile “aforisma”, devo dire di trovarmi sostanzialmente d’accordo con quanto scrive Berio.
In genere io suono il repertorio che mi piace e che ha la capacità di attrarmi. Questo mi ha portato ad interessarmi a musiche che vanno dal rinascimento ai giorni nostri con tutte le epoche intermedie...
Ho avuto lo stesso approccio - l’interesse derivato dall’attrazione - sia suonando il liuto come continuo nelle Quattro Stagioni vivaldiane, che le canzoni di Berio (in una versione approvata dal compositore con la chitarra al posto dell’arpa) in ensemble in un concerto di musica contemporanea, o alcuni brani dal Marteau sans maître di P.Boulez - suonati al Teatro S.Carlo di Napoli alla presenza del compositore francese - passando per le sonate di Cimarosa e Scarlatti, per gli studietti facili dell’op. 50 di M.Giuliani o per i Capricci di L.Legnani e per l’integrale (probabilmente la prima in assoluto) dei 24 Preludi e Fughe di M.Castelnuovo-Tedesco per due chitarre, o per gli studi di A.Gilardino.
Naturalmente non mi riferisco all’approccio interpretativo, diverso per ogni autore, ma a quella autenticità di intenzioni che ti rende “onesto” di fronte ad ogni composizione, nella considerazione che la musica va sempre studiata e assimilata nel profondo, imparando a sentirla come “propria”, anche quando gli autori sono lontani tra loro anni luce.

Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

Io credo che l’ambito interpretativo, anche quando investe il repertorio cosiddetto “colto”, possa dare a volte spazio a modi di suonare che possono tranquillamente essere ascritti all’ambito improvvisativo.
Mi spiego: se per improvvisazione si intende elaborare quello che è il materiale musicale intervenendo sulla sua essenza (note, armonia, struttura, etc.), certamente questo esula dal campo della musica che tu giustamente definisci “codificata”.
Ma se invece improvvisare significa farsi trasportare dalle emozioni che può creare l’estemporaneità di una esecuzione o di un “momento” (una sorta di “duende classico”: “il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare”), allora certo che mi capita di improvvisare.
L’altra sera, ad esempio, nel concerto di debutto del duo che ho formato con il mio amico Aniello Desiderio (il “Virtuoso Duo”) abbiamo avuto moltissimi momenti di sintonia perfetta, nei quali ci siamo in continuazione rincorsi in improvvisazioni interpretative, soprattutto nella musica di Albeniz e Granados, che nulla avevano che fare con ciò che nelle prove avevamo preparato. Il risultato, soprattutto sul piano emotivo, oltreché musicale, è stato straordinario e mi fa piacere che anche il pubblico ne sia stato preso....







Ascoltando la tua musica ho notato la tranquilla serenità con cui ti approcci allo strumento indipendentemente dal repertorio, da chi stai suonando, dal compositore, dallo strumento che adoperi, dimostri sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo. Quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere questo livello di “sicurezza”?

Certamente il lavoro sulla tecnica è importante, ma avere il controllo di “ciò che si fa” deve solo servire come mezzo per poter rendere appieno “ciò che si pensa”, questo è il ruolo della tecnica, secondo me. Anzi, più che di tecnica, parlerei di controllo e sviluppo di “tecniche”, cioè di tutto l’insieme delle varie “meccaniche” che consentono di avere una tecnica specifica da applicare alle singole esigenze che la “tecnica musicale” richiede per esprimere il proprio pensiero di interprete.
Ti faccio un esempio molto banale: ho sempre sorriso quando qualcuno mi ha chiesto “che tecnica adoperi per l’esecuzione delle scale?” e ho sempre risposto che questa è una domanda, per me, senza senso.
Se devo suonare una monodia molto legata e cantabile, non ho alcun problema a farlo con un solo dito della destra - magari con un tocco di polso senza articolazione delle dita -, così invece se il materiale musicale che sto suonando richiede un'articolazione binaria spiccata, uso l’alternanza i, m, ma se mi serve una velocità ed una scioltezza virtuosistiche (penso ai capricci di Legnani) allora frequentemente uso una diteggiatura a tre dita con a, m, i e non è che mi importi più di tanto se questo è un atteggiamento che non può certo definirsi, per molti autori, filologico.

E un discorso simile si potrebbe fare per l’uso del tocco volante o appoggiato o per tutti gli aspetti meccanici conosciuti.
Per questo dico che più “tecniche” si hanno a disposizione, più si può essere in grado di “rispondere” alle problematiche interpretative che la musica pone.
In questo senso devo dire che i “momenti” fondamentali della chitarra moderna, quelli che hanno segnato una svolta nel reale sviluppo delle “tecniche”, non possono che essere i 12 studi di Villa-Lobos e, con un linguaggio più vicino alla nostra modernità, i 60 Studi di Virtuosità e Trascendenza di A.Gilardino. Il loro studio dovrebbe essere obbligatorio, come è nei miei corsi, per tutti i chitarristi...

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