mercoledì 22 giugno 2011

Intervista a Dora Filippone, seconda parte


Nella sua intervista per il blog Maurizio Grandinetti raccontava di come avesse deciso di suonare musica contemporanea in un momento in cui questa scelta non era una semplice “decisione” musicale. Comportava una vera e propria presa di posizione ideologica, addirittura politica e grandi sono state le polemiche, i litigi, le rivalità di quei anni: gli strali di Henze contro il dogmatismo di Darmstadt, i tentativi di uscire e superare il serialismo, l’intransigenza di Boulez, addirittura le accuse a Stockhausen di essere un agente a servizio del capitalismo da parte di Cornelius Cardew … tutte cose spiegabili a posteriori con il desiderio di ciascuno di rivendicare per se una fetta di attualità. Oggi, dopo la caduta delle grandi ideologie e le certezze economiche distrutte dalla recente crisi si può ancora parlare di radicalismo nella musica contemporanea? Chi sceglie il repertorio contemporaneo fa ancora una scelta forte o “solo” una scelta di stile?

Le avanguardie in generale hanno giocato male la partita, il pubblico è stato molto spesso maltrattato e molto spesso non c'era proprio nulla di buono da sentire. E' stato necessario però passare da lì perché nell'arte non ci si può fermare al "mi piace" bisogna andare fino in fondo per poi trovare altre soluzioni. Il problema è che se Donatoni per esempio scriveva in quel suo stile, non se lo potevano permettere i "suoi imitatori" che scrivevano pure difficile e male. Questo fenomeno dell'imitazione di qualcun altro è stato portato molto alle lunghe e alla fine ha stufato. Progressivamente l'avanguardia per assurdo ha insistito sul cliché di se stessa, su uno stereotipo che l'ha portata progressivamente a morire. Oggi quello che va di più è tutt'altro, la maggior parte dei Festival contemporanei ha dovuto fare i conti con lo svuotamento progressivo delle sale ed interrogarsi volente o nolente sul valore del messaggio proposto. E siccome la cultura odierna considera l'arte alla pari di una merce il cui valore è attribuito in primis dal ritorno d'immagine che ha, è presto spiegata la penuria di programmazione di cui oggi soffre la musica contemporanea.

Credo che comunque questa problematica, per quanto in Italia come al solito è pesante ed è davvero di proporzioni inaudite, ha affinato l'ingenuo e prodotto alcuni fatti curiosi: per esempio l'orchestra Nazionale della RAI dedica sempre alcuni concerti alla Musica Contemporanea con prime esecuzioni assolute e non. Era desolante vedere l'Auditorio della RAI mezzo vuoto. Così hanno avuto l'idea di invitare un dj che fa riascoltare l'esecuzione dei brani attraverso la sua rielaborazione elettronica live. L'Auditorium è pieno di giovani che durante l'intervallo riascoltano, con la lattina di coca cola in mano la musica contemporanea: ecco questo è un esempio di mediazione possibile che ai puristi potrà far inorridire ma che confessO, che per alcune composizioni, il guadagno non è poco.

E poi perché bisogna solo interrogarci sul valore delle avanguardie musicali e rifiutarle a priori, mentre quelle pittoriche per esempio sono oggi di gran moda?

Relativamente alla musica personalmente provo la stessa noia anche verso la musica tonale, intendo dire quella "minore", che si scriveva perché si aveva un mestiere e di compositori "grigi" ce ne sono tanti ma nessuno lo dichiara. Mi viene in mente l'immagine di Bunuel nel film "L'angelo sterminatore" dove un gruppo di persone sono prigioniere per ore in un salotto senza che in realtà ci sia niente che vieti l'uscita da quella stanza. Bunel è magistrale nel descrivere man mano che passano le ore, il processo per il quale hanno il sopravvento dinamiche di gruppo irrazionali alimentate solo dalla paura, generata da luoghi comuni, dove il pensiero non riesce più a trovare una via d'uscita logica. Oggi mi sembra più che mai, che la cultura sia vittima di atteggiamenti stereotipati e non abbia il coraggio di atti unici propri e che non si assuma i rischi, che sono impliciti in ogni scelta.

Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “.. Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Lei suona sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … si riconosce in queste parole?

Assolutamente si, la musica non ha per me in questa accezione, dimensione spazio temporale: è musica e basta. Il problema vero è che quando Berio parlava così era perchè si era creata un'immagine di un musicista super specializzato: chi faceva musica contemporanea non era più accettato come musicista in grado di poter suonare bene Beethoven e viceversa. Sono stati interpreti come Pollini, fra i primi, che hanno ribaltato questo pensiero per cui oggi assistiamo finalmente a queste sorprendenti incursioni Bollani con Chailly, e anche musicisti che sanno suonare bene più di uno strumento come era nel passato.

Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

Le attitudini dei veri musicisti sono sempre state le stesse: un musicista del passato o del presente cerca di cesellare il proprio talento esplorando tutte le possibili vie espressive. Possono cambiare i termini: fioriture, diminuzioni, ma da sempre i grandi musicisti compositori o esecutori che siano si divertono estemporaneamente ad improvvisare. Che cosa sono le variazioni alla fin fine una delle possibili improvvisazioni su un tema dato che vengono poi fissate a posteriori sulla carta. Come scrive Schumann a proposito dell'Eleonora di Beethoven : "Sovente possono esservi due varianti d'uguale valore. La prima è generalmente la migliore." Trovo invece che i chitarristi "classici" in generale, siano terribilmente ingessati, specie nel repertorio dell'800. Non lo comprendono, perché in generale non sono capaci di essere flessibili e sono solo esclusivamente preoccupati di dimostrare di andare più veloci del vicino. E' triste constatare la mancanza di fantasia e vitalità che caratterizza la maggior parte delle incisioni aggravata dal fatto inequivocabile che non si frequenta il Teatro d'Opera. Questo particolare repertorio anche se strumentale, era intimamente legato all'opera lirica, era un fatto così ovvio e scontato che non era nemmeno necessario dichiararlo. Così barricati in questo universo del chitarrista e del repertorio eseguito così, contribuiscono a far bollare ancora di più come "minore" un repertorio ironico, pieno di spunti da cogliere al volo e dimostrano di non leggere la musica - "l'occhio armato vede stelle, dove quello disarmato scorge soltanto ombre di nebbia" (Schumann "La musica romantica" ), e di non ascoltare soprattutto altri interpreti non necessariamente chitarristi.

Inoltre vorrei sottolineare, come ho scritto in un mio saggio, che il fatto di trovare tante trascrizioni d'epoca per due chitarre -si pensi all'Ouverture di Rossini di Giuliani, o alla Londinese di Hydn di Carulli tra le tante - non deve far sorridere perché la funzione sociale che solo la chitarra aveva, per la facile trasportabilità e accordatura, è paragonabile all'uso che oggi si fa dell'iPod. Per assurdo oggi in un'epoca dove con un click a portata di mano si può soddisfare immediatamente una qualsiasi curiosità o esasperare la sete di conoscenza, trovo che il mondo della chitarra classica o accademico, sia arroccato su posizioni interpretative insostenibili e mi fa sorridere che proprio questo tipo di esecutore fa il peggior servizio allo strumento che suona. Questo fatto - se lo si confronta con l'interesse, invece, e il seguito che ha "l'altra chitarra" cioè quella non solo classica - deve indurre a delle constatazioni tra le quali a titolo esemplificativo osservo come artista che contrariamente ai luoghi retorici con cui l'accademia si difende, loro "gli altri chitarristi" hanno i piedi ben saldi nella musica e nel mondo, trascinano folle di persone entusiaste e annoverano grandi musicisti, a meno che ancora una volta i chitarristi invece di confrontarsi con i loro colleghi, pensino come una "casta" che solo la musica classica o il repertorio "Segoviano" sia degno di essere suonato e studiato!

Non sono capaci di cogliere ed importare nel repertorio "classico" le prassi improvvisative comuni sia ai generi "antichi" (chitarra barocca, battente, ecc) che a quelli più attuali jazz, blues, rock, pop, flamenco, ecc. La chitarra vive d'improvvisazione, ne è stata sempre imbevuta: sulla carta è da sempre stato fermato solo un canovaccio minimo o massimo, ma sempre canovaccio per pubblicare lo spartito. Se per esempio prendiamo come riferimento musicisti quali Ferdinando Sor o Mauro Giuliani, che vivevano in grandi capitali europee ed ascoltavano le prime assolute dei più grandi compositori della storia di quel periodo, che erano inseriti nella vita musicale di quei tempi ai più alti livelli e dovevano anche se "idealmente" gareggiare per vivere con quei grandi là, come possiamo pensare che suonassero così le loro opere, le pubblicassero così per essere eletti da quello stesso pubblico che partecipava assiduamente e pienamente alla vita musicale di quell'epoca, come dei "grandi"? Grandi solo rispetto al mondo della chitarra!? E degli emeriti "minchioni" - mi passerai il termine perché uno che renda così bene l'idea più fine non lo trovo - rispetto al mondo musicale che li circondava. Ma questo ruolo glielo appioppano quegli esecutori che per esempio, trovando lo stesso accordo ripetuto molte volte -specie nei finali dei brani- li eseguano perfettamente a tempo così come scritti. Ad un qualsiasi musicista, di fronte solo a due accordi di do maggiore in un finale gli verrebbe in mente di fare almeno un'improvvisazione di un arpeggio sull'accordo, al saggio chitarrista invece no, così è scritto e così deve essere fatto e se spesso e volentieri in alcune opere, specie quelle didattiche divulgative, svariate volte troviamo questo cliché esasperato anche notevolmente, che non sia mai detto di inventarsi qualcosa, si fa come scritto! Queste esecuzioni così forzate e poco convincenti hanno allontanato sempre di più la chitarra dai circuiti internazionali delle stagioni concertistiche. Relegata per lo più nei festival esclusivamente chitarristici, sorta di aste in cui l'elemento vincente non è più l'opera del compositore, ma l'enorme valore attribuito all'esecuzione, da parte di quel mondo che partecipa e vive quasi esclusivamente "di chitarra", fino a raggiungere posizioni al limite del ridicolo: l'interprete chitarrista è visto come il depositario della verità. Hai mai visto un grande pianista incidere per esempio gli studi del Beyer, il metodo con cui si inizia a studiare il pianoforte o la tecnica giornaliera del pianista di Pozzoli, per illuminare le future generazioni di giovani pianisti con l'esecuzione di opere didattiche in modo DOC, col marchio del grande esecutore al servizio dell'intera comunità pianistica, faro insostituibile nella sua funzione salvifica? Noi chitarristi abbiamo un record: anche le incisioni su CD dei 120 arpeggi!

La miniature può diventare preziosa se si racchiude nel poco spazio un mondo meraviglioso, questa è la sfida del nostro strumento.

Concludo con queste parole di Arvo Pärt perché la mia posizione non appaia come quella di una iper-critica magari anche un po frustrata. Noto con profonda amarezza che non c'è una visione dell'insieme, lo leggo nelle interviste, negli articoli riguardo alla chitarra, non c'è umiltà e penso che se potessero parlare oggi i vari Giuliani, Sor, ecc, forse parlerebbero con queste parole:

"I could compare my music to white light which contains all colours. Only a prism can divide the colours and make them apperr; this prism could be the spirit of the listener."

continua domani

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