mercoledì 13 aprile 2011

Intervista a Pino Forastiere, seconda parte


Ascoltando la sua musica ho notato la tranquilla serenità con cui lei si approccia allo strumento, indipendentemente da quello che lei suona (nel cd/dvd “Forastiere Live” si vede chiaramente) lei dimostra sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo, quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere a questo livello di “sicurezza”? In una sua intervista una volta Robert Fripp rispose alle critiche di certa stampa punk chiedendo se fosse più schiavo della tecnica chi non ne aveva affatto o chi ne aveva troppa … Fripp è stato troppo sofista o aveva ragione?

Affinché possa esserci solo la musica è fondamentale lasciarla fluire per ciò che è. Il resto non deve interessare. Se traspare tensione o sforzo, la musica si blocca. La musica si muove nell’aria e l’aria, che io sappia, non ha forma e non ha ostacoli. La musica, come l'aria, è in una strada vuota, larghissima, dove può e deve muoversi agile e prendere le forme che ognuno decide di darle. No, tutto questo non può essere fatto con sforzo alcuno. Ovviamente tra i 12 e i 25 anni ho studiato 10 ore al giorno perché la leggerezza e la consapevolezza del vuoto hanno un prezzo. Spesso rifletto sul fatto che se conosco 100 parole posso farmi capire, ma se se ne conosco 1000 posso farmi capire meglio. Ovviamente in un discorso non è necessario usare sempre 1000 parole, ma tra queste si possono scegliere le 10 migliori e forse la maturità di un artista si misura con la sua capacità di usare ciò che serve piuttosto che dimostrare ciò che sa.

A proposito di composizione per chitarra, Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Lei che ha attraversato il mondo classico ritiene che ci sia ancora qualcosa di veritiero nella frase di Berlioz o che alla fine sia solo un comodo alibi?

Negli ultimi decenni la tecnica chitarristica si è enormemente sviluppata rispetto al tempo in cui Berlioz forse pensava di scrivere cose che nessuno poteva suonargli. Moltissimi chitarristi sono in grado oggi di eseguire partiture molto complesse perché la tecnica si è evoluta, i limiti meccanici si sono ampliati, la tecnologia ci permette di rendere udibili sfumature interessanti che fino a pochi anni fa non era possibile sentire se non nel salotto di casa suonando per cinque amici possibilmente con le finestre chiuse. Tutti i compositori conoscono in linea di massima le prassi esecutive di ogni strumento esistente, le estensioni, i timbri, non credo quindi che sia più difficile scrivere per chitarra piuttosto che per violoncello. E comunque, un compositore può affiancarsi ad un chitarrista per farsi spiegare ciò che è tecnicamente possibile fare sullo strumento. Il mondo della chitarra è però ancora troppo autoreferenziale. I chitarristi parlano di chitarra e poco di musica e questo di certo non suscita la curiosità dei compositori. Sarebbe anche interessante che i chitarristi-compositori studiassero la musica al di fuori della chitarra, facessero un po’ di analisi delle partiture, studiassero composizione e ascoltassero i suoni piuttosto che le sole vibrazioni delle corde. Questo approccio potrebbe aiutare ad ampliare il repertorio in termini musicali piuttosto che chitarristici, e forse avvicinerebbe i compositori alla chitarra.

Sentendola suonare ho avuto l’impulso di tirare fuori dalla mia discoteca i vinili della Windham Hill di geni musicali come Alex de Grassi, Michael Hedges, i cd della Takoma school, Robbie Basho, John Fahey, Sandy Bull Peter Walker e di chitarristi più recenti come il compianto Jack Rose, Glenn Jones, James Blackshaws … queste musiche, questi chitarristi hanno influenzato le sue scelte musicali? E se sì come?

Senza Michael Hedges non mi sarei mai avvicinato al mondo della chitarra acustica. Degli altri che citi non conosco in maniera approfondita l’opera e quindi riaffermo Hedges come mio faro in questo mondo in continua evoluzione.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

La confusione genera confusione, e probabilmente le nuove generazioni sono confuse anche perché troppo informate. I fatti di cui hanno l’illusione di essere protagonisti sono troppi, e ho la sensazione che la brama di esserci, di apparire sia più importante di isolarsi a pensare. La profondità terrorizza, si preferisce confondersi nella moltitudine piuttosto che rischiare di rimanere soli con i propri pensieri. Ma senza il vuoto dentro non è possibile capire il senso delle cose, se tutti i nostri spazi sono già pieni a priori, non lavoreremo mai abbastanza per riempirli. Oggi il mondo mi appare come una parete piena di quadri ed io ho sempre preferito le pareti vuote da poter riempire io stesso, piuttosto che la passiva attitudine a rimirare immagini appese da altri. Non mi spaventa tanto quella che lei chiama “visione uniforme”, quanto la miopia con cui le anime assorbono la confusione in atto senza ragionare, criticare, inventare, sbagliare. Questo mondo mi appare così passivo, una parete stracolma appunto di quadri dove si rischia di non discernere tra valore e non valore. L’arte oggi deve fare i conti con la mediocrità dilagante e questo mi spaventa molto di più di qualcuno che antepone Beethoven a Bach.

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