sabato 18 luglio 2009

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte terza

Ho notato un suo interesse per la musica indiana. La cosa mi ha piacevolmente stupito primo perché anch’io sono un appassionato di questa musica millenaria e secondo perché lei è il primo chitarrista classico che utilizza moduli compositivi indiani nelle sue musiche, non è una novità nel mondo della dodici corde acustica dove chitarristi come Robbie Basho e John Fahey in passato e Jack Rose attualmente hanno inciso musiche bellissime con riferimento alla musica carnatica e hindustani. Lei conosce questi chitarristi? Cosa la affascina della musica indiana?


La mia familiarità con la classica indiana risale agli anni in cui suonavo anche la chitarra elettrica e in occidente questo stile si era già imposto al giovane pubblico dei festival e concerti pop grazie a musicisti come Ravi Shankar e, in forma “occidentalizzata” nelle esperienze fusion dei gruppi “Mahavishnu Orchestra” e “Shakti” fondati da John McLaughlin (giusto per citarne alcuni). Questa mia simpatia fu dichiarata già nel 1984 con “Raga” per pianoforte preparato, dove operavo un tentativo di accostare alcuni elementi strutturali e melodici di ispirazione indiana ad un mondo espressivo tardo-romantico. Un altro esempio è “Raga-Blues”, dalla “Electric Suite” (1995) per chitarra, che si presenta come un alap (parte introduttiva) e si trasforma lungo il suo sviluppo fino ad evocare armonie proprie del Blues. Le mie intenzioni sono ancora più dichiarate nell’inedito “Polymodale”, che inizia con “Alap” seguito da “Jor” (parte in cui si avvia il ritmo), per finire con “Sviluppo” scritto in notazione classica. Contiene una scala Bhairav ed è proposto nelle prime due parti come un raga, cioè fornendo all’interprete dei materiali su cui improvvisare. La prima esecuzione di questo pezzo l’ho fatta a Denver nel 2004 e l’ho poi suonato in tutti i miei concerti. Senz’altro lo includerò nelle mie prossime incisioni.
In molte mie composizioni è facile scorgere qualche frammento indianeggiante, nel colore di un intervallo, o nel modo di fraseggiare, o nel carattere di una sezione (come in “Alba”, dai “Quattro Travestimenti”). La cosa mi risulta naturale, fa parte dei miei modi di esprimermi. Però mantengo anche una visione fortemente occidentale della musica, nella misura in cui non rinuncio mai ad una ricerca armonica. Sopratutto mi piace che all’interno del brano ci siano dei cambi di colore (a differenza della classica indiana in cui il basso e la scala usata rimangono uguali per tutto il pezzo). Spesso uso anch’ io un criterio modale, ma mi piace cambiare modo all’interno del pezzo. Ecco cosa intendo per “Polymodale”. Per quanto riguarda i chitarristi Robbie Basho, John Fahey e Jack Rose, non posso dire di conoscerli a fondo. Mi sembrano molto ispirati, ma mi sento distante da loro per motivi riguardanti questa ricerca-invenzione armonica che sento importante per me e non percepisco nei materiali che loro hanno usato.
Per continuare a citare altri chitarristi “filo-indiani”, nell’ambiente classico abbiamo Ganesh Del Vescovo che svolge da anni un originale lavoro di ricerca e di assimilazione fra le due culture, componendo, improvvisando e perfino creando dei nuovi strumenti che mescolano le sonorità della chitarra, con quelle degli strumenti indiani, in particolare del sarod.



Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “.. Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novencento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Lei suona sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … si riconosce in queste parole?


Certo, Berio diceva bene, ma distingueva solo tra musica classica e musica del Novecento. Io aggiungerei che in ogni stile e cultura musicale ci sono delle ricchezze. Peccato se un musicista non se ne accorge perché crede (o gli hanno fatto credere) che alcuni modi di far musica sono “da evitare”.


Parliamo di marketing. Quanto pensa che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?


Quanto? Molto! Se sei bravo, originale, autentico e hai tante altre belle qualità non è detto che gli altri se ne accorgano o ne prendano atto invitandoti, ingaggiandoti. Intanto da che mondo è mondo se ci mettiamo da parte nessuno verrà mai a dirci “ma che fa? Venga con noi, si metta alla luce...” È molto più probabile che stiamo facendo un favore agli altri lasciando il campo libero... Questo è vero oggi più che mai in quanto la cultura dell’apparire ha spesso soppiantato quella dell’essere. Quindi mi sembra che se ci si vuole imporre o almeno “galleggiare” professionalmente bisogna imparare un pò il mestiere del self-promoter. Corsi e seminari su questo argomento sono già in atto in varie scuole, per fortuna.


Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?


Rispondo innanzitutto alla seconda parte della domanda che mi dà l’occasione di parlare di un aspetto poco noto. Mi riferisco al fatto che spesso quando si parla di improvvisazione si pensa direttamente o anche solo implicitamente a qualche stile catalogato. Personalmente tengo corsi di improvvisazione (spesso collegati alla composizione) dal 1995 e una delle prime cose che sottolineo è quella che non intendo confondere l’improvvisazione con alcuni stili musicali in cui essa è stata fortemente adoperata, come il jazz, la classica indiana, il blues, il rock ecc... Naturalmente sottolineo che apprezzo molto quei linguaggi, ma non è il punto né l’obbiettivo del nostro percorso. Nelle esperienze che sollecito ai miei allievi ognuno si deve poter esprimere con le influenze stilistiche che gli risultano più congeniali e spontanee.
A rigore, in una visione “idealistica-utopistica”, se un musicista davvero improvvisasse, dovrebbe creare qualcosa di radicalmente nuovo, senza confini di stile e di linguaggio. In realtà, come tutti sappiamo, nell’improvvisazione spesso ci si serve di alcuni “moduli” (scale, accordi, frammenti melodici, formule ritmiche) conosciuti, o almeno in parte visitati, perché grazie a questi supporti parzialmente memorizzati si può dare sfogo alla propria creatività. Sembra un controsenso, ma spesso è ciò che accade. È inevitabile quindi che questi frammenti di memoria poi ricomposti all’atto dell’improvvisazione portino con sé tracce dei linguaggi che più abbiamo visitato come interpreti o anche solo come ascoltatori.
I moderni didatti come Delalande, De Gainza, o Schafer insistono molto perché l’improvvisazione sia una ricerca sonora scollegata da ogni linguaggio precostituito, in modo che il musicista che improvvisa trovi in questa esperienza un veicolo di introspezione e contemporaneamente di espressione, un’esperienza di creazione pura e non di riciclaggio e mescolanza di idee. A questo proposito promuovono molti giochi (sopratutto per i bambini, che hanno meno dati di repertorio in memoria) di ricerca e produzione del suono, utilizzando un’infinità di oggetti come strumenti musicali. Questo contribuisce a creare una mentalità più aperta e a non dare niente per scontato circa le tessiture e gli stilemi espressivi musicali creando così le permesse per la ricerca musicale delle generazioni future.
É chiaro pure che tutto è relativo e che il più “puro” dei bambini avrà comunque mille occasioni per ascoltare (ed anche praticare) molti generi musicali precostituiti, con linguaggi standard (vedi musica leggera, loop e ritmi prodotti da congegni elettronici – rigorosamente in quattro quarti!); ma l’esperienza improvvisativa, se ben guidata non dovrebbe reprimere nessuna simpatia e tendenza musicale, ma solo aprire la persona all’ascolto di molti eventi sonori che ci circondano ed invitarla a creare, scoprire, esplorare, partecipare, trasformare dei materiali sonori (anche tonalissimi) per adattarli alla propria sensibilità e liberare la propria espressione.
Personalmente dò molta importanza all’improvvisazione, innanzitutto nella mia pratica musicale quotidiana, facendo sempre delle “passeggiate” improvvisative sullo strumento a inizio-seduta di studio, prima di intraprendere lo studio di eventuali brani da preparare per i miei concerti. In questi percorsi cerco di “scaldare” prima di tutto la mia sensibilità, cercando di far venire subito fuori un’atmosfera musicale fin dalle prime note; questo può sembrare ovvio, ma incominciando la seduta di studio con la tecnica “pura” secondo me c’è il rischio di meccanicizzare l’atto del far musica. Contemporaneamente “scaldo” le dita con arpeggi, melodie e combinazioni miste, immaginando e insieme realizzando situazioni musicali. Cerco nuovi accordi, concatenazioni armoniche, scale e varie combinazioni strumentali sempre all’interno dell’ atmosfera in cui mi trovo, producendo così delle improvvisazioni che hanno valenza tecnica, espressiva, creativa e di esercizio armonico. Nelle mie composizioni poi, ho cercato varie volte di evocare l’atmosfera creata da persone che improvvisano, come una sorta di omaggio ai valori di spontaneità e di imprevedibilità propri dell’improvvisazione e difficilmente riproducibili nella musica “progettata”. Ho dato per esempio delle indicazioni costituite da materiali armonico-melodici su cui improvvisare (in “Sera”), ho scritto in modo misurato la parte di uno strumento e contemporaneamente a “fasce sonore” quella dell’altro (“Alba”), oppure ho adoperato la notazione degli standard del jazz dando delle armonie su cui improvvisare, controllando però le posizioni degli accordi e “fissando” una voce intermedia (“Cafè 1930”).
Insomma, cerco di coniugare composizione e improvvisazione. Per dirne un’altra, da un pò di tempo apro i miei concerti con “Maña de carnaval” di Luis Bonfa, improvvisando del tutto liberamente sulle prime idee che mi vengono al momento, ed avvicinandomi gradualmente ai materiali tematici del pezzo. Questo mette in moto la mia fantasia e il mio contatto strumentale, lasciando che la musica provenga dalla mia immaginazione anziché essere dettata da uno spartito. Niente di meglio quindi per stare nel momento presente, conquistando maggiormente la partecipazione del pubblico.



.. continua domani ...

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