lunedì 13 settembre 2010

Recensione di John Somebody di Scott Johnson (Tzadik 2004)

Scott Johnson John Somebody Tzadik 2004

Siano benedetti in ordine sparso i negozietti di cd usati, Ebay e coloro che si disfano di intere discoteche perché grazie a loro ogni appassionato ha la possibilità di integrare e recuperare cd di cui magari avvea solo sentito parlare e la cui diffusione e tiratura sono davvero minimali.
E’ il caso di questo bellissimo John Somebody ristampato dal 2004 dalla benemerita Tzadik di John Zorn, originariamente pubblicato su vinile dalla Nonesuch nel 1986 dall’allora ventiquattrenne Scott Johnson.
Si tratta di un disco di chitarre costruito con le tecniche care ai minimalisti, con continui rimandi al primo Steve Reich e le sue manipolazioni di frasi rubate dalla vita reale, con particolare riferimento a "Come Out" e a "It's Gonna Rain". La differenza, rispetto adi minimalisti doc è che Scott Johnson era all’epoca un giovane compositore cresciuto immerso nella cultura del rock e della chitarra elettrica, avendo poi sviluppato un interesse anche accademico per le tecniche compositive tipiche della musica d’avanguardia dell'epoca: come per Rhys Chatam e Glenn Branca qui la chitarra elettrica non è un elemento in piu' da aggiungere a posteriori ma una componente intrinseca che faceva parte del DNA di questo giovane compositore nato nel 1952 a Madison, Wisconsin e poi trapiantato a New York.

You know who's in New York?
You remember that guy... J-John somebody?
He was a-- he was sort of a--...


Il punto di partenza compositivo per il brano "John Somebody" (suddiviso in otto segmenti) e' costituito da brevi spezzoni di nastro contenenti frammenti vocali rubati alla vita reale, montatati con la tecnica del loop e manipolati in modo da formare una base ritmica dalla quale prende spunto il lavoro delle chitarre elettriche sovrapposte (suonate dallo stesso Scott Johnson) e dei fiati suonati da Lenny Pickett che fanno da complemento essenziale assieme alle percussioni di Bill Ruyle. In realta' il lavoro di Johnson e' ancora piu' complesso, perche' i frammenti vocali rubate vengono utilizzati non solo per la scansione ritmica che il processo di loop fa scaturire ma anche per la componente melodico/timbrica che queste frasi ribattute riescono ad evocare. E' una sorta di simbiosi metalinguistica, con le chitarre e i fiati tesi ad emulare le sottigliezze della emissione vocale umana manipolata a posteriori amplificandone gli effetti con la differenza che qui le chitarre (dai suoni vicini a quelli del monumentale Discipline dei King Crimson) sono impiegate tenendo conto di tutto l'immaginario del rock, con i suoi riff, le sue frasi ad effetto, le sue timbriche stravolte dai distorsori e dall'amplificazione.

Il brano "No Memory" e' piu' rigoroso da un punto di vista compositivo ma allo stesso tempo non e' altrettanto rivoluzionario proprio perche' si stacca di meno da quello che altri artisti della scuola minimalista stavano combinando in quegli anni. Qui i loop sono piu' rarefatti e la strumentazione sovrapposta e' costituita da chitarre e bassi elettrici suonati da Johnson, senza aiuti esterni. Lo stesso procedimento tecnologico viene utilizzato nel brano "U79" che non compariva nella versione originale dell'album e che viene aggiunto come interessante bonus dalla attuale etichetta discografica. La dimensione e' ancora piu' percussiva e misteriosa, come se il linguaggio di partenza fosse diventato quello delle rane gracidante di una serata estiva.
Un disco davvero interessante e innovativo, ne suggerisco l’ascolto leggendo il bel saggio sempre di Scott Johnson intitolato The Counterpoint Of Species pubblicato nel libro Arcana musicians on music realizzato da John Zorn.

Empedocle70

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