mercoledì 4 febbraio 2009

L'esempio dei canti cilentani, da 'Le oscillazioni del gusto' di Gillo Dorfles

Riportiamo un frammento del saggio di Gillo Dorfles Le oscillazioni del gusto, dove l’autore parla, sia pure en passant, di questioni musicali. Il saggio, che reca come sottotitolo L’arte d’oggi fra tecnologia e consumismo, intende offrire al lettore una facile ed agile chiave per decifrare molte delle oscurità e dei problemi presentati dall’arte contemporanea. Sono passati quasi quarant’anni dall’epoca in cui questo volumetto vide la luce (1970), ma non si può dire che il tema del divorzio fra pubblico e arte contemporanea, con tutte le contraddizioni e gli equivoci che si tira dietro, non sia più d’attualità… Come dimostra lo stesso Dorfles, molti anni più tardi, nel corso di questa intervista

http://www.arteadesso.net/tempofermo/numeri/1/conv_gd.htm

Anche le numerose incursioni recenti da parte di antropologi e di etnologi nella preistoria o nella storia coeva di popolazioni barbariche non sono state capaci di permettere l’identificazione d’un principio strutturalmente unitario che possa giustificare il sorgere dell’impulso estetico in maniera analoga nelle diverse età e nelle diverse civiltà. Se la scoperta di certa arte neolitica (nelle caverne di Altamira o di Lascaux, per es.) ci rassicura circa la presenza d’un impulso costante sin dall’antichità più remota a creare figurazioni autonome; questo non basta ancora a dimostrare che la ragion d’essere di tali figurazioni debba esser considerata analoga a quella che, ai giorni nostri, porta a inventare oggetti così lontani da quelli dell’arte del passato. E può soltanto convincerci come la funzione stessa di quelle operazioni che continuiamo a definire artistiche fosse d’un genere ben diverso. (…)
Le trasformazioni del gusto, oltretutto, erano regolate in passato e soprattutto in un passato remoto da leggi molto più ferree di quelle attuali e che non potremmo neppure concepire. Si pensi alle leggi armoniche che vietavano l’uso delle quinte e delle ottave consecutive, alle leggi sugli ordini architettonici o sulla prosodia poetica, e via dicendo. E si pensi al noto esempio della proibizione, da parte di Platone, dell’uso d’un modo musicale straniero al posto di quello usato e sancito dalla società ateniese del tempo.
Eppure una ragione importante per il sussistere e il permanere di tali leggi doveva pur esserci ed era evidentemente legata ad altrettante ragioni di carattere etico, religioso, sociale, politico. Il rapporto tra la situazione estetica di quei tempi e la nostra, divenuta così totalmente anomica, si può forse far corrispondere, in termini marxiani, al rapporto fra un’etica di società ancora tribali o arcaiche o comunque preindustriali, e quella moralità –ormai intrisa di moralismo- della società capitalistica. Ecco perché le leggi estetiche dell’antichità (come quelle dei Greci o dei Cinesi) erano tutt’uno con le leggi etiche dell’epoca e come tali dovevano venir rispettate; mentre oggi leggi estetiche non possono più darsi e neppure leggi etiche che non siano prevalentemente infarcite di moralismo.
Purtroppo buona parte del pubblico vive ancora –spesso inconsapevolmente- nella convinzione che alcune di quelle antiche Leggi (religiose sociali etiche iniziatiche) siano tuttora valide e non trasgredibili; pena la bontà dell’opera d’arte; che conservino, insomma, una sorta di sanzione divina. Si considerino anche soltanto alcuni casi più semplici come quello della verosimiglianza, della riproduzione dal vero, delle leggi prospettiche, di certi canoni riguardanti la proporzione e la simmetria, e via dicendo.
La musica si presta particolarmente bene per illuminare questa situazione proprio per la sua qualità di arte essenzialmente astratta non rappresentativa, aneidetica; la musica oltretutto, a differenza delle arti plastiche, non ha la possibilità che in maniera molto vaga di rifarsi ad un passato classico, non può attingere come le arti visive ai grandi modelli dell’antichità, che sono andati completamente perduti e di cui non restano che scarse documentazioni scritte… Ebbene, anche per la musica, è giunto un momento di rottura che si è verificato quando l’abbandono del centro tonale venne a liberare quella in arginabile marea di suoni che ha permesso al musicista di distruggere la radicata convinzione che la co-sonanza fosse la prerogativa della migliore sonorità musicale e non si potesse trasgredire.
Le varie tappe seguite dalla musica a partire dal cromatismo wagneriano, dall’ipercromatismo regeriano, dal politonalismo e dall’atonalismo dodecafonico, sfociano così nel ripudio di quel rapporto tonica-dominante che è paragonabile, in certo senso, al trilite architettonico, alla prospettiva pittorica, alla rima poetica. Così, al giorno d’oggi, si può sostenere che, anche per la musica, come per la pittura e la poesia, esistono due gusti nettamente distinti: uno per gli adepti, l’altro per i profani. E, del resto, chi studi le rapide trasformazioni che si sono instaurate nel campo della musica si renderà conto come, in mancanza d’una specifica educazione a sentire sia quasi impossibile un’accettazione della Nuova Musica da parte di chi abbia l’orecchio condizionato dalle melodie della canzoni di consumo o, sia pure, dalla tradizionale musica classica.
Una prova di quanto affermo si può avere con alcuni facili esempi, ai quali troppo di rado si ricorre. Proviamo, per esempio, a paragonare tra di loro certi canti cilentani (che mi è capitato di ascoltare nell’interno della penisola del Cilento e che probabilmente si rifanno ad un antico modalismo di origine greca) con le banali e romantiche canzonette partenopee. Ci accorgeremo subito come quelle canzoni arcaiche (che vengono ormai gustate solo dalle genti del luogo: esigue isole etniche in via di estinzione) sembrano oltremodo ostiche e stonate alla popolazione della costa, abituata alla canzonetta in tonica e dominante… Le stesse, per contro, suoneranno curiosamente efficaci ed insolite ad orecchie colte, già avvezza all’atonalismo della musica moderna, o al moralismo dei canti arcaici.
Un caso analogo si avrà con molta musica estremo-orientale basata sopra gamme prevalentemente pentatoniche e, di solito, strettamente monodica. Questo genere di musica, che apparirà moderna (perché non tonale) e stonata ad un orecchio occidentale, che non abbia particolare cultura musicale, appare invece del tutto normale –anzi perfino scontata- ad un giapponese…
Ecco dunque due esempi in cui un genere di musica sorto in origine come canto popolare, oppure un tipo di musica destinato a un’intera popolazione d’una civiltà lontana dalla nostra, possono assumere delle qualità di arte d’elite solo in virtù d’una loro sfasatura nel tempo o nello spazio, d’un loro aver mantenuto un certo stile non più della nostra epoca, e che proprio per ciò appare più moderno.
Questi esempi riguardanti la musica sono, mi sembra, estremamente elementari eppure no vengono di solito considerati neppure da chi si sforza di spiegare il perché della così difficile accettazione della musica nuova (Stockhausen, Boulez, Berio etc.) da parte non solo del pubblico incolto, ma di molto musicisti e cultori di musica tradizionale.
In definitiva la musica si presta, meglio ancora di pittura e poesia, a dimostrare l’opportunità di impostare in maniera diversa, non più nozionistica e storicistica, la ricerca d’una necessitarietà estetica.
Un’osservazione che mi è capitato più volte di fare, ad es. è come dei brani a base di musiche elettroniche (o concrete) magari assai complesse e tutt’altro che orecchiabili, siano accettati sans broncher se utilizzate come accompagnamento d’un film poniamo di fantascienza o d’un balletto moderno (V. le musiche per il New York City Ballet), anche da parte d’un pubblico del tutto impreparato; mentre le stesse, ammannite ad un concerto, verrebbero considerate ostiche o addirittura insopportabili. Altra riprova di come spesso sia esclusivamente un preconcetto culturalistico a precludere le latenti facoltà di ascolto –o di visualizzazione- dell’arte moderna.

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