mercoledì 1 ottobre 2008

Speciale Maurizio Pisati: Intervista di Empedocle70 parte prima



Empedocle70: Lei ha studiato al Conservatorio di Milano, diplomandosi con il massimo dei voti in Composizione con S. Sciarrino, A. Guarnieri e G. Manzoni ed in seguito anche in Chitarra Classica. Com’era la scena musicale al Conservatorio in quegli anni e cosa ha voluto dire per lei poter studiare con insegnanti di quel livello?
Maurizio Pisati: Così come ora, il Conservatorio poteva essere solo una buona istituzione di istruzione specialistica o anche un "ambiente" di fermento culturale, secondo le capacità di coinvolgimento dei singoli docenti e degli studenti stessi. Per me è stato un microcosmo fertile, lì ho verificato la possibilità di passare la vita ad inventare. Ho la stessa sensazione anche ora da docente, quando il contatto con Allievi di talento porta a "riconoscere" le strade, a non perdere di vista come ci si sente quando si è ancora i soli a sapere di essere un musicista.
Con Sciarrino ho condotto uno studio radicale, consapevole, seguendolo anche nei corsi di Perfezionamento estivi e all'Accademia invernale di Città di Castello. Da lui sono stato inoltre personalmente guidato in un vero apprendistato manuale, che negli anni di studio mi ha anche permesso di lavorare come copista per Casa Ricordi, studiando copiando e correggendo le partiture della Nuova Musica prima della loro esecuzione.
Il passaggio con Adriano Guarnieri ha segnato un altro momento indimenticabile, un apprendimento "a pelle", di getto e irruento, dopo di che, al corso superiore, ho scelto di diplomarmi con Giacomo Manzoni, compositore di rara esperienza e affettuosa severità, unite ad una competenza non comune.
Per la Chitarra, oltre agli anni in Conservatorio con Paolo Cherici ho avuto la fortuna di studiare con un musicista completo quale Claudio Conti, allievo di Ruggero Chiesa e Oscar Ghiglia. Posso dire che i miei Maestri sono stati tali e in ognuno ho riconosciuto parte di ciò che cercavo. E' stato un privilegio, che ha anche richiesto un lavoro serio per allontanarsene: più sono bravi più è difficile.


E.: Lei è stato per studio in Germania, Svizzera e Giappone, che realtà ha trovato in quei paesi rispetto alla situazione italiana? Sono paesi particolamente noti per l’approccio culturalmente favorevole alla musica contemporanea …
M.P.: Premetto: ho spesso privilegiato la curiosità rispetto alle certezze e alle soluzioni, ma ho sempre avuto una percezione certa della musica nella storia come espressione necessariamente "contemporanea", sempre un passo avanti a noi. La prospettiva quindi è inversa: siamo noi ad essere suoi contemporanei.
Detto questo, vi sono paesi che fanno meno resistenza al passaggio del tempo, hanno una concezione alta del proprio tempo e sanno che, a lasciar fare agli artisti, spesso nascono spazi nuovi. In poche parole, sono luoghi dove talvolta troviamo tempi e luoghi di invenzione più agevol e rispettosi. Questo non ha alcun legame con la qualità dell'invenzione, che è sempre frutto delle nostre motivazioni lavoro, ma in quei paesi, così come in Svezia, Olanda o Islanda, io avverto sempre non solo una disponibilità materiale ma anche atteggiamenti nei confronti del lavoro artistico dove rispetto e curiosità si fondono in un fare accogliente ed esigente: organizzatori, studenti e collaboratori non pre-giudicano o non suppongono, partecipano attivamente alla formazione di aspettative che stimolano ancor di più. In Giappone ho avuto l’impulso maggiore e le suggestioni più forti, forse anche per la lunga permanenza, ad ogni modo alcuni aspetti di quella cultura honno trovato riscontro in interessi che già erano radicati in me,ed ho acquisito il senso dello “spazio tra le cose”, in Giapponese: “MA”, che da allora è entrato a far parte anche della mia firma, dove separa idealmente nome e cognome.




E.: In molta della sua musica si coglie spesso la presenza ora più evidente, ora più trasfigurata, nascosta o snaturata della chitarra, sia essa presente con un suono classico, elettrico o trattata elettronicamente. Quanto è importante la presenza della chitarra nella sua musica?
M.P.: La Chitarra è il mio strumento. Da compositore provo piacere nell'individuare idee per ogni strumento, ma la Chitarra è la sede degli automatismi più fini delle mie dita e con loro è benevola e accogliente, tanto da costringermi, componendo, a una certa "distanza" per evitare di scrivere pezzi "da Chitarrista" (non illudiamoci, i pezzi di Chopin non sono "da Pianista") e ottenere dei pezzi di musica.
Nella prefazione ai SetteStudi (©Ricordi199) con conscia presunzione li ho indicati come una nuova Chitarra, un'idea dello strumento attenta ai suoi suoni interiori e una percezione musicale approfondita. Nella mia musica per Chitarra, quando il suono detto tradizionale compare, si impone sugli "altri" suoni ad un livello acustico differenziato, lui -l'ordinario- diviene il diverso, che si staglia netto sulle sonorità "alternative". Il fatto è che i suoni non esistono di per sé oltre il loro trattamento: ordinario/straordinario sono nostre distinzioni, un suono stoppato non è un'altezza eseguita diversamente. La tanto discussa poca udibilità della Chitarra è qui esplorata non come problema di volume acustico, bensì di qualità degli elementi sonori e dei loro accostamenti, di livelli di udibilità resi leggibili tramite le differenze. La prima esecuzione dei Sette studi è avvenuta il 29 luglio 1990 a Darmstadt a opera di Elena Càsoli invitata alla XXXV edizione dei Ferienkurse für Neue Musik, e a lei queste musiche sono da sempre dedicate. (vedi: “PisatiStudio2”)























E.: Elena Càsoli, Jurgen Ruck, Magnus Andersson, Geoffrey Morris, Massimo Lonardi, Emanuele Forni. Lei collabora e ha collaborato con diversi chitarristi classici, come si è trovato a lavorare con ciascuno di essi? Quali sono per lei le loro caratteristiche e differenze?
M.P.: Eh! bell'elenco, e aggiungerei al volo anche Stefan Östersjö, Pablo Gòmez, Caroline Delume, Arturo Tallini, Sante Tursi, Virginia Arancio, Izhar Elias. Parlo sempre volentieri dei "miei" Interpreti.
Non chiamerei nessuno di loro "Chitarrista classico" (ma la definizione, dal punto di vista della loro formazione, è corretta): questi sono artisti che partecipano attivamente al pensiero del loro tempo, Interpreti, che in scena rischiano una visione autonoma della musica.
Sono doverose alcune distinzioni di indirizzo, personali e soprattutto cronologiche: con Elena Càsoli il rapporto artistico risale agli anni di Conservatorio. Mi ero informato: era la più brava ed a lei ho telefonato, ambedue ancora studenti, perchè eseguisse la mia prima composizione premiata in un concorso. Poi ha visto nascere i SetteStudi, ne è stata la prima interprete e dedicataria, ha reso possibile agli altri Chitarristi verificare che ciò che vedevano scritto fosse leggibile ed eseguibile; ha cioè condiviso con me la visione di un mondo nuovo sullo strumento. Le visioni continuano, affiancate a tutto il resto della vita.
A lei accosto gli altri Interpreti di lunga data, Magnus Andersson committente di "Senti?" per Chitarra e Orchestra d'Archi, Jürgen Ruck che ha voluto i "Caprichos de simios y burros" su quadri di Goya, Massimo Lonardi, complice in una scorribanda Arciliutistica, sino a Geoffrey Morris, primo interprete del ciclo Theatre of Dawn, opera di teatro in cui la Chitarra ha ruolo centrale e solistico.
Di conoscenza più recente, l'ultimo decennio, sono Pablo Gòmez, Caroline Delume, Stefan Östersjö e Arturo Tallini committente di "Guitar Clock I" per tre o infinite Chitarre, Sante Tursi, conosciuto on-line e poi "dal vivo" dopo che mi era stata segnalata sul web una sua intensa esecuzione degli Studi a Lima, sino alla generazione più giovane: Emanuele Forni che di mio ha "assaggiato" tutto, classico, le rivisitazioni di Dowland in "Catullus" o i pezzi per Chitarra Elettrica e AudioVideo, sino a Virginia Arancio dalle interpretazioni fresche e decise, o Izhar Elias, anch'egli interprete degli Studi e co-committente di OER, per una Università olandese.

E.: Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Lei, come compositore e chitarrista, quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?
M.P.: La risposta è su due fronti: repertorio e approccio compositivo. Per la cosiddetta esiguità del repertorio dobbiamo talvolta ringraziare proprio i Chitarristi, ad esempio nel primo '900 hanno semplicemente perso una fetta di storia, scambiando le gioie dell'invenzione per "los nubarrones de la impotencia creativa". Vi sono poi ragioni storiche e organologiche, che non è qui il caso di argomentare ma che non vanno sottovalutate e che sfociano nel nostro tempo, dove la Chitarra ha di nuovo un repertorio originale e di qualità, anche in conseguenza al miglior equilibrio tra strumenti e acustica delle sale e all’interesse dei Compositori verso “le” Chitarre.
L'approccio compositivo, come dicevo prima, è stato per me l'opposto. Berlioz in realtà avrebbe saputo comporre per qualsiasi strumento, ma è vero che può essere ostico gestire rapporti intervallari e tecniche varie su uno strumento dalla così particolare disposizione del registro e, soprattutto, dalle infinite possibilità di emissione quando appena si cominci a pensare alle due mani come effettivamente "2" e non un solo meccanismo finemente coordinato.
Ma è questione di "mestiere" e idee, non più di come sarebbe comporre per qualsiasi altro strumento non praticato personalmente: il Compositore deve conoscere gli strumenti e penso dovrebbe possedere quella qualità che mi piace chiamare "immaginazione assoluta", utile almeno quanto l'orecchio assoluto, certo più indispensabile.

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