mercoledì 8 ottobre 2008

Majakovskij... e le 'mots scientifiques'

Come forse ricorderete, il grande poeta futurista russo Vladimir Majakovskij scrisse un saggio, dal titolo Come far versi, nel quale sottoponeva a metodica analisi il 'produrre' poetico servendosi di concetti tratti per analogia dai termini ormai correnti nell’ambito della produzione industriale: materiali poetici grezzi, semilavorati, prodotti finiti. Giustamente il poeta tedesco Hans Magnus Enzerberger nota come il carattere tecnologico della poesia moderna sia meglio definito da questo lessico analogico che dai moduli critico-letterari, oggi vigenti, nel loro spesso vacuo preziosismo (laboratorio verbale, sperimento, costellazione, elemento strutturale etc.). Mi sono ricordato, e del testo del poeta russo e della postilla del tedesco, leggendo un breve saggio del linguista Tullio De Mauro sui Linguaggi scientifici, laddove l’autore osserva come sovente una patente di scientificità venga assegnata a questa o quella argomentazione sulla base di mere considerazioni di stile. E ciò avviene perché nel concetto di scienza si intrecciano tecniche operative e modi di pensare, ma anche, inseparabilmente, modi di usare simboli e parole. E’ difficile tracciare una linea netta di separazione: lo sviluppo tecnologico e scientifico impone una circolazione più intensa delle terminologie dei vari settori specialistici , ciò che determina a lungo andare l’adozione nell’uso comune di parole che discendono da iniziali ambiti tecnici e scientifici. Un caso emblematico è appunto l’uso analogico della terminologia tecnico-industriale operato da Majakovskij per spiegare come far versi, dal momento che quella terminologia, di origine appunto ‘tecnica’, settoriale, è rapidamente diventata metaforicamente di uso linguistico comune nelle società industrializzate. Come dire, fra l’altro, che Majakovskij ha deliberatamente scelto di non usare il linguaggio specialistico dei letterati per trattare un argomento specificamente letterario..
C’è infatti.. un rovescio della medaglia, e cioè quella retorica dei mots scientifiques, dell’abuso inutile di parole difficili con aria di scienza che il nostro Galliari detestava già nella cultura francese del ‘700. Certo, l’esibizione di parole ‘difficili’ in fondo ha i suoi committenti e i suoi destinatari. De Mauro cita ad esempio le industrie farmaceutiche che fanno confezionare una letteratura pseudiospecialistica farcita di termini e pseudotermini destinati ad impressionare... Al di là comunque delle tecniche pubblicitarie a fini direttamente commerciali, di cui questo è un esempio fra gli altri, c’è comunque un fattore oggettivo che rischia di rendere sempre più drammatica la situazione odierna a questo riguardo: la divisione crescente del lavoro tende infatti ad isolare ciascuna categoria economica e sociale all’interno del suo singolo settore di attività sempre più specializzato. La contrapposizione esperti-non esperti si riproduce in questo senso non solo verticalmente, ma anche orizzontalmente, fra vari gruppi di esperti i quali appena oltrepassano i confini della loro specifica competenza sono costretti ad accettare senza discutere i giudizi degli altri specialisti, a fidarsi ciecamente di loro..
Si capisce come , in un simile contesto, certe tentazioni non propriamente nobili dell’animo umano, dalla smania di potere alla pura vanità, possano uscire rafforzate.
Generalmente si sottovaluta –credo- il muro di diffidenza (per astio, invidia, soggezione) che i vari linguaggi specialistici sono capaci di creare intorno a sé, quando si capisce o anche solo si sospetta che quei linguaggi non siano usati per, ma, con apparente paradosso, contro una giusta, corretta informazione.
Ma torniamo a parlare di letteratura, di poesia. Sono ancora d’accordo con De Mauro quando sostiene che la critica letteraria e d’arte si caratterizza oggi per una tale torrenzialità scrittoria che scrivere e tener dietro ai libri si può ormai quasi ritenere poco produttivo; meglio, forse, tornare a privilegiare la comunicazione personale, orale, diretta, ottenuta vagando da una parte all’altra del pianeta.. Esagerazioni? Può darsi. Per quanto mi riguarda, devo confessare francamente che spesso i saggi di critica letteraria mi annoiano, e che trovo molto più interessanti in genere i testi ai quali scrittori e poeti affidano confidenze e riflessioni relative al loro lavoro.. Ha detto la poetessa americana Marianne Moore: poiché in tutto ciò che ho scritto vi sono versi in cui il nucleo più interessante è preso in prestito.. mi sembra semplicemente onesto dare conto delle mie fonti. Forse una siffatta dichiarazione di onestà può sembrare eccessiva o addirittura… sospetta, ma in fondo è vero che la poesia vive di linguaggi diversi, di continue contaminazioni: una macchina tritatutto, tritaversi, tritaparole, tritalinguaggi, una macchina che fa e disfa e poi fa di nuovo e, fra creazioni e ri-creazioni, forse non butta via mai nulla, neanche una sillaba, o quasi.. Però però, in fondo penso che sia giusto non solo e non tanto dar conto delle proprie fonti, quanto piuttosto delle proprie tecniche di lavoro, dei propri ‘segreti di bottega’, compilando magari un manuale tecnico-pratico, una ‘guida alla composizione e alla risoluzione dei giochi’.. Certo, non tutti (anzi pochi) arrivano a questo livello di ‘onestà’. Penso che il farmacista non debba rivelare in alcun caso la ricetta delle sue misture scriveva Thomas Bohme.. E invece proprio questo -io credo- è il modo migliore con il quale i poeti potrebbero (e forse dovrebbero) parlare alla gente comune, ai non addetti ai lavori, usando il linguaggio più chiaro possibile, spiegando come si fanno i versi, alla maniera di Majakovskji.. Appunto.



Fausto Bottai

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