giovedì 24 gennaio 2008

Note su "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Benjamin di Walter Falciatore parte quarta

Dunque né “ l’aura” (qualità che sia detto per inciso non doveva essere percepita dagli antichi di fronte alle loro opere , ma che doveva diventare oggetto di analisi solo dopo la prima teoria del bello in estetica concepita da Winckelmann alla fine dell’epoca illuminista e al sorgere dell’epoca romantica ) né il principio della serialità distinguono in sé per sé l’attività artistica tradizionale da quella dell’era tecnologica avanzata, sono semmai proprio le potenzialità nuove, anche sconvolgenti, di questa tecnologia che appaiono a Benjamin essere dotate di una qualche magia particolare , di un’”aura” speciale. Di quel senso della meraviglia che ha catturato la prometeica psicologia occidentale sin dall’apparire del primo automa di Vaucanson e che oggi è, a tutti gli effetti , la sola vera estetica delle masse. Intendiamo la tecnologia come forma, meglio, come “seconda natura”, piuttosto che tecnologia come medium di un’arte nuova, democratica o meno che sia.La ricerca artistica intanto ha proceduto per suo conto in quanto autonoma riflessione, con i suoi propri mezzi e i suoi propri linguaggi, basti pensare ad alcune manifestazioni fondamentali dell’arte del novecento, a Paul Klee e alla sua minuziosa analiticità astratta, oppure al versante dell’espressionismo di Jackson Pollock, alla gestualità moderna che si incontra con l’attitudine alla meditazione degli antichi in un riallacciarsi tra tradizione e attualità. A fronte di simili esperienze l’arte che si rifà alla natura biologica dell’uomo non appare del tutto morta e potrebbe sopravvivere solo che l’artista non decida di soggiacere alla meraviglia e allo spavento che la divinità tecnologica gli incute.Resterebbe dunque , tra le tante altre cose, ancora da fare un commento più approfondito circa quella “seconda natura” generata nella percezione dell’arte dalla forza della tecnologia e soprattutto dalla capacità del cinema e poi di tutti gli altri media visuali a venire di mostrare l’immagine come un vissuto in movimento consentendo allo spettatore di volare sospeso tra le intricate vie della Metropolis di Fritz Lang, ma allo stesso tempo inducendo ciascuno ad allinearsi costretto e confuso tra le masse piegate che popolano quella pellicola, sino all’approdo attuale alla virtualità assoluta, nella quale libertà estetica e condizionamento sociale finiscono per coincidere chimericamente.E però anche di questa forma di esperienza percettiva, fenomeno che va “oltre lo stesso ambito artistico” vi è almeno (ma non soltanto) un significativo precedente nella storia dell’arte tradizionale e proprio nella pittura da cavalletto con i suoi poveri materiali e metodi di applicazione. La si ritrova nella immagine della sua stanza che Vincent van Gogh dipinse ad Arles, un percorso chiuso di inquietante incertezza realizzato da un artista che disponeva nella retina di un suo grandangolo naturale in grado di rendere dell’immagine vissuta tutti gli aspetti dell’allucinatorietà. Ma questo è in parte già un altro discorso, poiché è in definitiva comunque vero ciò che Benjamin ha affermato circa la “seconda natura” dell’arte scaturita dalle moderne tecnologie, ma questa seconda natura piuttosto che appartenere al mondo della ricerca artistica , tende a fare il suo ingresso in un sentiero i cui meandri oscuri forse l’arte tradizionale aveva saputo meglio illuminare con la lucidità dell’esperienza individuale, il sentiero che conduce al campo ben più vasto del sogno e dell’ inestricabile legame che esso intrattiene con la realtà, per quanto tecnologica e disincantata essa si voglia mostrare.




Walter Falciatore
http://www.kore.it/CAFFE/caffe.htm

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